Finestre aperte su disabilità e lavoro: una proposta per ascoltare e studiare le narrazioni dei protagonisti
Fonte: diversity-management.it
Il “mondo” della Diversity & Inclusion vive di attenzioni cicliche e di progressive prese di consapevolezza, ma anche di “punti di non ritorno” oltre i quali non è più possibile evitare di occuparsi dei fenomeni emersi.
Quando una tematica di inclusion compare finalmente in piena luce, coloro che gestiscono persone (HR, uffici personale, management board) si trovano a guardarsi e a chiedersi come abbiano potuto non occuparsene prima. Attorno a questo si scatenano diverse dinamiche, alcune più evolutive, altre più regressive, basate sul timore di fare il primo passo. Una delle dinamiche maggiormente evolutive è il riconoscimento di un “debito di conoscenza” e della necessità di studiare e di fare ricerca seria sul fenomeno in questione.
Il tema della disabilità al lavoro ha raggiunto un punto di non ritorno. Da diverse statistiche risulta un grado di disoccupazione dell’80% tra le persone che hanno una disabilità che tuttavia non compromette la loro possibilità di lavorare. I pochi posti di lavoro sono generalmente precari, poco qualificati e poco corrispondenti a titoli e competenze della persona.
Difficile quantificare il grado di inclusione nel contesto lavorativo, ma di certo non abbondano le opportunità di formazione e soprattutto di carriera e sviluppo professionale per le persone con disabilità. Alcune aziende sono al di sotto delle “quote” previste dalla legge 68/99, anche perché per molti anni gli sgravi offerti non sono stati valutati sufficienti a compensare gli investimenti richiesti per adeguare ambienti, processi, modalità di lavoro. Dal 2015 con il progressivo aumento delle sanzioni questo approccio è diventato più difficile. Ma diverse aziende avevano già da tempo iniziato a sperimentare progetti di inclusione, e i casi di successo non mancano.
Tuttavia ancor oggi si conosce poco della condizione delle persone con disabilità al lavoro, un debito di conoscenza che è giunto il tempo di colmare. Il linguaggio e i concetti non sono consolidati, la nozione stessa di disabilità non è scontata. Parlando di disabilità si vuole da un lato essere onnicomprensivi, dovendo dall’altro fare i conti con una grande diversità interna e con l’insufficienza (anzi, a volte nocività) della categorizzazione (es. disabilità psichiche, motorie, sensoriali).
Anche le fonti di “dati” sono poche, discontinue. È difficile soprattutto accedere all’esperienza delle persone, andando oltre dati quantitativi e superficiali. Tuttavia qualche idea per superare questi limiti e intraprendere un vero percorso di conoscenza c’è. E come spesso accade, l’innovazione proviene dall’importazione di metodologie ed esperienze tra contesti contigui.
Ogni persona con disabilità ha una storia da raccontare. Essa non è riproducibile, eppure presenta ricorrenze comuni.
Come è possibile raccogliere e analizzare un gran numero di narrazioni che descrivono l’esperienza dei “protagonisti”, comparando poi questi dati per poter estrarre insegnamenti significativi? E dell’esperienza di una persona con disabilità sono molti i protagonisti: oltre naturalmente alla persona stessa vi sono la famiglia e altre persone significative, referenti aziendali, colleghi, clienti, personale sanitario e dei servizi.
Gli strumenti di analisi quali-quantitativi messi a punto dalla “narrative medicine” consentono di decodificarle e tramandarle producendo efficacia e divenendo qualità, cioè valore riconosciuto. Se guardiamo al passato anche recente, vediamo che queste metodologie sono state applicate in molte ricerche di successo da Fondazione ISTUD, centro di formazione e sviluppo di conoscenza sul management attivo dal 1970 ma contraddistinto da costante innovazione. Molte delle ricerche condotte da Fondazione ISTUD in ambito sanitario hanno aperto spiragli sulla vita lavorativa delle persone con disabilità. Ad esempio le narrazioni collegate a 235 persone con una patologia chiamata Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) hanno evidenziato che il 28% di loro ha dovuto usufruire di permessi, ferie dal lavoro o ha dovuto modificare il proprio contratto sia per disabilità fisica sia per accedere alle cure, per un totale di quasi una mensilità l’anno. Il 21% ha smesso definitivamente di lavorare. Anche l’impatto sull’attività lavorativa del familiare è elevato: a prestare assistenza è infatti il 70% dei familiari del paziente, di cui il 54% per oltre 3 ore al giorno e il 16% per più di 8, creando una situazione incompatibile con qualsiasi attività lavorativa [dati progetto FARO].
91 storie di cura dell’epilessia scritte da 25 epilettologi di tutta Italia hanno evidenziato che a fronte di un’età media di 37 anni, il 60% non è occupato e riporta difficoltà di inserimento lavorativo o mantenimento dell’occupazione [dati progetto ERE]. Ancora, i racconti legati a 86 persone con lesioni midollari hanno riportato barriere architettoniche che solo nel 42% sono state rimosse per rendere pienamente accessibile il luogo di lavoro. Dopo la lesione midollare, il 38% dei datori di lavoro si è mostrato neutrale (22%) o poco comprensivo/per nulla comprensivo (16%). Anche tra i colleghi di lavoro si riscontra poca preparazione e conoscenza, nel 25% dei casi neutralità o poca comprensione. Per quanto riguarda il reinserimento al lavoro, il 47% delle persone con lesione midollare utilizza le stesse competenze che aveva prima della lesione, il 53% intraprende un nuovo percorso professionale, ma il 60% ritiene di non avere buone prospettive di reinserimento.
“L’azienda non appena sa che sei un disabile in carrozzina preferisce non assumerti perché non ha gli spazi tutti accessibili. Le conviene di più pagare la penale, che ha un peso irrisorio per le sue casse” – questa è una delle citazioni rappresentative di situazioni che la maggior parte delle aziende non vogliono più creare. Bisogna sensibilizzare e formare a una cultura aziendale inclusiva che punti a superare i possibili pregiudizi e scoprire le capacità e le qualità professionali delle persone con disabilità, nonchè l’opportunità del loro inserimento lavorativo.
Ma questo richiamo alla giustizia sociale e al benessere organizzativo e individuale non basta: i potenti strumenti della “narrative medicine” possono oggi essere messi al servizio della crescita aziendale:
- Documentando le sfide dell’integrazione e le soluzioni trovate e soprattutto le storie personali delle persone con disabilità che oggi abitano il mondo del lavoro;
- Fornendo nuovi dati ed esperienze concrete su: fase di recruitment, inserimento lavorativo, strumenti di welfare, collaborazioni con servizi sociali-sanitari, motivazione, utilizzo e ruolo delle tecnologie, tipologie ed utilizzo degli strumenti di flessibilità, team building con i colleghi, esperienze di supporto e crescita professionale;
- Valorizzando le best-practices di realtà aziendali che sono riuscite nel processo di inclusione e valorizzazione delle persone con disabilità
Con tutti questi obiettivi Fondazione ISTUD è stata coinvolta da Wise Growth – dal 2008 società leader della Diversity & Inclusion in Italia – nella ricerca “Disabilità e lavoro: una ricerca attraverso le narrazioni dei protagonisti”, in avvio a ottobre 2019.
Gli spiragli aperti dai metodi narrativi applicati in contesti sanitari devono ora diventare finestre aperte: la disabilità al lavoro con il progetto di ricerca “le narrazioni dei protagonisti” darà certamente un contributo importante e riconoscibile.
Parola di Wise Growth, Fondazione ISTUD, e tutte le aziende e gli enti che vorranno salire a bordo e salpare per questo viaggio di conoscenza.