Crisi e Innovazione
Probabilmente due tra le parole più utilizzate per raccontare questo periodo storico, perlomeno dalle nostre parti. Se ne legge sui giornali, se ne sente parlare nei talk show televisivi, circolano in rete, e naturalmente se ne parla anche nelle aule di formazione, luogo per me privilegiato per ascoltare e imparare, oltre che per aiutare le persone a fare le stesse cose.
La prima è perlopiù una categoria descrittiva oltre che un dato di fatto, la seconda un desiderio profondo, l’antidoto spesso invocato contro la prima: in un momento di crisi semplifico, ma non poi così tanto, il ragionamento sentito mille volte. L’innovazione è una delle risposte che l’azienda cerca per rilanciarsi, per affermare nuovi (del tutto o in parte) prodotti e servizi sul mercato. Il ragionamento è naturalmente più complesso di così e gli elementi che possono permettere il superamento della situazione di crisi attuale sono molteplici, interdipendenti tra loro e molti non sono sotto il controllo dell’azienda ma “innovare per uscire dalla crisi” è una delle proposte decisive, giustamente tra le più citate.
Il fatto è che quelle due parole “crisi e innovazione” presuppongono azioni organizzative diverse: è per un verso fondamentale reagire alla crisi, ed è altrettanto importante la ricerca dell’innovazione, ma difficilmente si possono perseguire entrambe contemporaneamente.
Se infatti proviamo a superare l’immediato e un po’ istintivo meccanismo secondo il quale è il “bisogno che stimola l’innovazione” presente nel popolare “il bisogno aguzza l’ingegno” e evidentemente insufficiente, e facciamo un’analisi realistica dei comportamenti organizzativi agiti concretamente, scopriamo che le azioni auspicate per affrontare o arginare una crisi, difficilmente portano verso l’innovazione se non in soluzioni tampone; d’altra parte i comportamenti stimolati o agiti nell’organizzazione per produrre innovazione difficilmente producono effetti disponibili in tempi certi, a meno che l’innovazione non fosse già a portata di mano (allora sì che il bisogno aguzza l’ingegno, ma come finalizzazione di processi già in atto) oppure venga comprata all’esterno. Se nella celebre scelta make or buy la seconda per vari motivi non è disponibile e l’innovazione si cerca di produrla all’interno, allora la strada non è così semplice. E’ un po’ come quello che si dice per il “problem solving”: ciò non si può fare in momenti di emergenza, nei quali si cerca casomai una soluzione tampone, per avviare poi in seguito il processo di risoluzione del problema ma riproposta in una scala macro, più ampia. E anche più complessa.
Scelgo i due elementi più rilevanti che secondo me portano crisi e innovazione ad entrare in tensione: il tempo e l’autorità.
Sul tempo: mentre la crisi richiede rapidità di reazione e dunque tempi corti, l’innovazione non può avere tempi certi, ed è tendenzialmente inefficiente. In un testo del 2007 (The power of collaboration), Keith Sawyer, professore di psicologia alla Washington University di St. Luis, spiega con chiarezza il legame tra tempo, innovazione e collaborazione. Se le singole persone possono avere intuizioni utili all’innovazione, frutto della loro personale creatività, condivido con Sawyer il punto di vista secondo il quale nessun singolo attore tira fuori di colpo il quadro d’insieme, la trama completa. L’azione emerge pezzo a pezzo. “Le innovazioni riuscite avvengono quando le organizzazioni riescono a combinare le idee giuste nella struttura giusta”. Ci vogliono spesso più passaggi e più persone per far sì che le idee si incontrino e si scontrino, mutino o vengano abbandonate lungo il cammino in un percorso spesso frastagliato fatto di passi avanti, indietro, di lato, fughe in avanti e clamorosi ritorni indietro, cantonate e ripartenze, volontà, abnegazione e passaggi casuali, tutto ciò può avere poco di regolare e pianificato, e dunque risulta difficilmente conciliabile con le esigenze di risposta nel breve periodo imposta dalle crisi.
La ricerca dell’innovazione poco si concilia anche con le condizioni psicologiche di chi vive la crisi, normalmente dominate dal senso dell’urgenza e da un livello di ansia crescente al passare di un tempo, percepito sempre più breve, e “all’ennesimo passaggio” di un processo che non sembra produrre risultati. Il “bisogna fare qualcosa!” non è lo stato d’animo più fecondo per trovare soluzioni nuove e risolutive; al contrario esso porta spesso all’attivazione di schemi mentali regressivi, ad una soluzione purchessia, che permetta di dire, appunto, stiamo facendo qualcosa e di scaricare l’ansia. Il processo di innovazione deve produrre sovrabbondanza ed è per sua natura inefficiente, spiega ancora Sawyer, esso comporta più errori e i colpi mancati sono numerosi quanto quelli riusciti. Ma quelli che fanno centro possono essere fenomenali, compensando abbondantemente gli sbagli o “l’inefficienza”.
Sull’autorità: mentre la crisi richiede solitamente che il timone sia in mani salde e pronte alle necessarie virate, l’innovazione emerge dal basso, perchè non nasce nelle singole persone, ma tra esse, nello spazio della loro collaborazione non (troppo) guidata. Quando nella aule ci fermiamo a riflettere sui comportamenti efficaci nelle situazioni di crisi, mi permetto a volte una breve digressione storica, per rendere evidente come su molti aspetti dell’agire organizzato le cose siano note da tempo. Cito infatti la figura del Dittatore nella Costituzione Repubblicana dell’antica Roma. Mentre la magistratura ordinaria era di tipo collegiale anche nella parte apicale della gerarchia: i consoli erano due per rispondere a situazioni di emergenza e di pericolo il comando veniva accentrato nelle mani di un’unica persona. La crisi concentra il comando e anche i manager più propensi alla condivisione e alla delega assumono un maggior controllo delle attività e decidono in autonomia nelle situazioni di crisi – mentre l’innovazione è espressione di un sistema decentrato e multicentrico. Scrive Sawyer “le squadre più innovative sono quelle capaci di ristrutturarsi in risposta ai cambiamenti inaspettati dell’ambiente: non hanno bisogno di un leader forte che dica loro cosa fare”, mentre nella realtà i molti manager hanno difficoltà a lasciare tutto lo spazio necessario a questa autorganizzazione, perchè il risultato non è regolato dall’agenda della direzione e quindi è meno prevedibile.
Tempi e passaggi poco prevedibili, processi emergenti e collettivi, contenitori organizzativi senza una guida forte: tutti messaggi poco rassicuranti per chi sta al timone di una nave in burrasca. Che fare dunque? Difficile proporre soluzioni, quando c’è tempesta desideri solo un porto, il problema è semmai arrivarci. Però due cose le voglio dire, la prima è almeno provare a creare ambienti organizzativi che permettano e magari facilitino l’emergere dell’innovazione, a partire dal convivere con l’ossimoro “pianificare l’improvvisazione” e secondo, non dimenticarsene una volta giunti in porto, in vista della tempesta successiva.
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