L’eterno ritorno delle pandemie: lezioni dal passato per non farci schiacciare dal presente
Si parla tanto, ormai da mesi, della diffusione di questo nuovo Corona virus che sta mettendo in crisi i sistemi sanitari, sociali ed economici di mezzo mondo. Ai più potrà sembrare che questa sia probabilmente un’emergenza senza precedenti, un caso unico nella storia, ma non è affatto così. Il passato, anche non molto lontano, ci tramanda infatti storie di pandemie di vario ordine e grado (da bacilli, batteri, virus…) che, pur nella differenza dei contesti, sembrano quasi essere il prequel, mi si passi il termine, di quella attuale e che, proprio per questo, possono raccontarci e insegnarci molto, anche rispetto allo scenario di questi ultimi, difficili giorni.
Oltre agli strumenti di indagine della moderna medicina, a venirci in aiuto, in questi casi, è proprio la narrazione, intesa nel suo significato ancestrale, che non è esattamente lo story-telling moderno, ma molto ha in effetti a che spartire anche con questo approccio che, come Fondazione ISTUD, abbiamo coltivato e continuiamo a coltivare, anche e soprattutto nell’area degli studi medico-sanitari.
Un valido contributo in questo senso ce lo offre appunto la storia, che nel suo approccio principalmente qualitativo si nutre avidamente di memorie e testimonianze (scritte ed orali) che confluiscono poi nel grande mare della memoria d’archivio e talora si sedimentano nella coscienza collettiva di uomini e popoli interi. E’ il caso della grande pandemia di peste del 1348, un evento dai contorni tragici e senza precedenti che cercheremo qui di raccontare cogliendone non solo e non tanto i numeri, ma anche e soprattutto le voci, le storie e le testimonianze, in quel caleidoscopio di fonti e scritti che della storia rappresenta appunto l’anima vera.
Racconteremo in particolare di come quella dirompente pandemia si sia diffusa e sia stata percepita e descritta dagli storiografi che a lungo si sono confrontati sulle cause e le ragioni che ne hanno determinato il decorso, ma lasceremo parlare anche i cronisti e i testimoni dell’epoca che, sulla loro carne viva, sperimentarono la virulenza e il dramma del contagio e, non di rado, lo stigma sociale che vi era associato. In questa cornice emergerà con chiarezza come la patologia, nella sua accezione clinica, quella che in termini scientifici può essere definita disease, come ci ricordano gli studi di medicina narrativa della nostra Area Sanità, non sia che una delle tante facce di quella condizione che identifichiamo con il termine generico di “malattia”, e che è invece un combinato disposto di almeno tre variabili: la disease, appunto, che ne esprime gli aspetti più propriamente clinici, la illness, che può essere definita come il percepito della malattia da parte del soggetto che ne è affetto, e la sickness, che rappresenta la prospettiva sociale sulla malattia, e che spesso si esprime nella forma dello stigma e del pregiudizio, come nel caso che esamineremo.
In particolare vedremo come, nella percezione dei contemporanei di quella gravissima crisi, sia quasi del tutto inesistente la dimensione della disease, che oggi è invece largamente dominante, mentre prevalga un atteggiamento di stigma e condanna sociale, che a pieno titolo può essere ascritto alla sfera della sickness (i malati diventano così untori, peccatori, individui che vivono al margine, in un continuo sovrapporsi tra religione, pregiudizi sociali ed errate cognizioni scientifiche). Vedremo infine come il lato umano della malattia, la cosiddetta illness, trovi principalmente espressione nelle lettere e negli scritti privati di cronisti e storiografi, spesso tramite, anche a quei tempi, della diffusione di informazioni non corrette, quando non del tutto false (le fake news non sono una novità!), dalle quali trapela tutta la sofferenza e la proiezione dei drammi individuali, delle famiglie e delle comunità, in un continuo ininterrotto di testimonianze che ben restituisce l’affresco inquietante di un’umanità dolente e ferita che nessuna statistica potrà mai efficacemente raccontare.
Tutto questo nella speranza che lo sguardo sul passato possa illuminare il nostro presente di una luce nuova, reintegrandolo nella sua piena e compiuta “storicità”, e quindi restituendolo a noi nella forma compiuta di qualcosa che appartiene alla natura umana, qualcosa con cui dobbiamo fare i conti, senza per questo lasciarcene schiacciare.
Tommaso Limonta
Laurea in Storia Moderna presso l’Università degli Studi di Milano, Master in International Affairs presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di Milano, Master in Business Management (ILA) presso ISTUD. In qualità di collaboratore scientifico, ha collaborato per tre anni (2005-2008) con il Centro Italo-Tedesco Villa Vigoni, specializzandosi sui temi delle relazioni economiche e culturali fra Italia e Germania. Presso ISTUD si occupa di ricerca nell’area dell’organizzazione e dei progetti finanziati internazionali (LLP ed Erasmus +), con particolare riferimento ai temi della multiculturalità e dell’applicazione della prospettiva storica agli studi organizzativi. In questa veste è responsabile dal 2008 del percorso formativo denominato “Analogie, lezioni per manager” che si propone di utilizzare la metodologia analogica per la formazione e la crescita professionale dei livelli dirigenziali. Ha collaborato con l’Area Sanità della Fondazione, con particolare riguardo all’utilizzo dell’approccio narrativo negli studi di ricerca applicata.