Intervista a Vitaliy Novikov, Country General Manager e CEO per l’Italia di Coca-Cola Hellenic Bottling Company.
Intervista a Vitaliy Novikov, Country General Manager e CEO per l’Italia di Coca-Cola Hellenic Bottling Company realizzata da Domenico Bianco, Carlo Damiano Spedicato e Vittorio Vitulli studenti del Master in Marketing Management e Nicoletta Martino, studentessa del Master in Risorse Umane e Organizzazione.
In un panorama in rapida evoluzione e sempre più digitale, come quello odierno, come sono cambiate le strategie di marketing e comunicazione di Coca-Cola negli ultimi anni?
Oggi è molto semplice riuscire a reperire, in maniera istantanea, qualsiasi tipo di informazione su aziende e prodotti: il consumatore può avere una visione più ampia e consapevole. La mancanza di asimmetria tra aziende e consumatori, ed i gusti sempre più frammentati di questi ultimi, spingono verso nuove strategie di marketing, verso l’umanizzazione dei brand. Per questo, nella comunicazione odierna è fondamentale un intenso coinvolgimento del proprio target e di potenziali nuovi clienti, mettendoli tutti nelle condizioni di poter interagire con il brand.
Dal momento che offrite un prodotto molto forte, affermato e con un grande brand questo quanto agevola il lavoro di tutti i giorni? Vi potete dedicare prettamente ai canali di distribuzione, alla pubblicità e a curare la customer experience? Di Coca-Cola ce n’è una sola e piace quasi a tutti.
Di Coca-Cola ce ne è solo una, ma in tante varianti, e il nostro portafoglio è molto ricco. Per fare qualche esempio, c’è Adez, la nuova bevanda vegetale di soia, riso, mandorla, avena e cocco, con 8 sku, e Fuze Tea un tè freddo in rapido sviluppo. Attraverso la Business Unit Premium Horeca & Spirits distribuiamo prodotti, tra cui gin e vermouth, e ci occupiamo anche della commercializzazione dell’Amaro Lucano: siamo responsabili della gestione di una gamma di prodotti molto più ampia rispetto al passato. Il mio ruolo per il futuro è declinare e realizzare ciò che Coca-Cola vuole diventare nei prossimi tre-cinque anni.
Ho la fortuna di avere colleghi molto bravi, ma la responsabilità che sento maggiormente è quella di definire processi nuovi all’interno dell’azienda. La nostra strategia si basa su un approccio distributivo e di servizio 24 ore su 24, 7 giorni su 7, quindi 24 su 7 per ogni prodotto, per ogni gamma, per ogni bisogno dei consumatori.
Coca-Cola non basta: sono i consumatori a dirlo, qui ci si collega alle politiche di marketing e a temi come asimmetria informativa. È vero che si parla di un marchio unico e mitico, ma da sola non basta più: si devono ascoltare i consumatori, le loro esigenze, altrimenti si è destinati al declino.
Coca-Cola sta andando, ormai, dritta verso un obiettivo importante, diventare una Total Beverage Company. Come nuovo player in un nuovo mercato su cosa puntate per differenziarvi?
Il primo passo è sicuramente quello di identificare attentamente i bisogni dei consumatori, ancor di più se sono ancora poco chiari, in fase di sviluppo. I mercati odierni sono caratterizzati da alta imprevedibilità. È evidente che cambiare la nostra cultura e il nostro modo di pensare è l’altro passo importante verso questo obiettivo. Bisogna essere pronti ai fallimenti e da questi imparare.
Remote working e policy attente al welfare aziendale: in Coca-Cola molte strategie di incentivazione/motivazione per i propri lavoratori sono già una realtà ben collaudata. Avete riscontrato resistenze in fase di implementazione di questo nuovo sistema? Se sì, quali sono le cause secondo lei?
Non abbiamo trovato delle resistenze specifiche. Dal punto di vista dell’employee engagement, la cosa su cui stiamo lavorando molto è il work life balance per i giovani e per chi ha figli, perché è molto difficile combinare la carriera con le priorità della vita privata. Questo cambio di prospettiva rispetto a 20 anni fa c’è stato ed è stato enorme. Una resistenza specifica non c’è stata, ma il cambio di percezione è stato forte. Essendo io stesso giovane, per me è più facile capire e vivere questa esigenza da parte dei colleghi.
Quando abbiamo introdotto il Remote Working ci sono stati dubbi riguardo al minor controllo che avremmo potuto avere sulle attività dei dipendenti che avrebbero lavorato lontano dall’ufficio. Tuttavia, siamo convinti che sia la strada giusta e che finché le persone portano dei risultati non vi è bisogno di alcun controllo. I nostri dipendenti hanno un forte senso di responsabilità e di appartenenza, questo ci ha permesso di ripensare i processi e di ottimizzarli. Da 2 siamo giunti a 5 giorni di Remote Working e la gradualità di questi cambiamenti, passo per passo, sta costruendo la nuova direzione.
Vista l’ondata green, sebbene comunque in Italia, si possa riciclare la plastica, non ritenete utile lanciare la campagna “2nd Lives” anche in Italia?
Assolutamente, siamo molto focalizzati sui temi ambientali, in particolare sull’impatto della plastica dopo il consumo. In Italia, il livello di raccolta della plastica è molto alto, al contrario del suo riciclo, e i nostri pack sono 100% riciclabili, da sempre. Il nostro obiettivo è quello di dare semplicemente una spinta, una second life, perché possiamo fare diverse cose con la plastica delle nostre bottiglie. È importante lavorare con le altre aziende della filiera e con le istituzioni per migliorare ulteriormente l’infrastruttura di raccolta, ma anche sensibilizzare i consumatori ad una nuova consapevolezza ambientale, a quanto sia importante differenziare i propri rifiuti.
Noi stiamo investendo e lavorando, con consorzi e produttori, per affrontare queste temi. “2nd Lives” è una buona campagna per evidenziare che c’è questo problema, e capire che ci sono comunque usi diversi. Per risolvere il problema una volta per tutte ci vuole tempo, ci vogliono le giuste tecnologie e per quanto di nostra competenza, ci stiamo lavorando.
Per il futuro Coca-Cola si impegna a raggiungere il 100% di plastica riciclata entro l’anno 2030.
Invece per quanto riguarda la sua formazione, quali sono stati, se ci sono stati, degli elementi essenziali che l’hanno condotta a ricoprire un ruolo così importante come quello di Country General Manager?
Quando ho deciso quale sarebbe stato il mio obiettivo avevo 16 anni, quindi ero giovanissimo. Mi sono chiesto che cosa volessi fare nella vita e questo pensiero mi ha portato a realizzare che per fare quello che volevo, dovevo andare via. D’altronde ero un ragazzo che viveva in un’Ucraina un po’ diversa da come è adesso perché a quei tempi, con l’influenza dell’Unione Sovietica, avevamo un sistema di formazione che sull’aspetto tecnico non aveva alcun problema, ma l’assetto economico-sociale non esisteva. E questo mi ha fatto capire che l’unica soluzione che avevo era quella di uscire. Alla fine questa è stata la decisione migliore che abbia preso per poter continuare a formarmi come volevo.
Quindi dovevo uscire, ma dove andare? La cosa migliore, probabilmente, sarebbe stata Inghilterra o Stati Uniti. L’inglese lo conoscevo ma lì bisognava pagare, non c’erano borse di studio e io non potevo pagare tutto. Allora ho trovato un altro modo: l’Austria e la Germania offrivano tante borse di studio, ma era necessario conoscere il tedesco ed io non lo conoscevo. La scelta più facile sarebbe stata lasciar perdere tutto, ma ce la volevo fare, a qualunque costo, e così ho imparato la lingua, anche se non ci sono molto portato. Alla fine quindi sono arrivato in Austria ed una volta lì mi sono ritrovato in una situazione molto interessante, perché ero un giovane ucraino che studiava in Austria, parlando già ucraino, tedesco e inglese (che avevo imparato precedentemente in università in Ucraina), e pensavo che questo mix fosse uno svantaggio perché mi ritrovavo circondato da austriaci madrelingua. Non è stato così: possedere qualità diverse è un vantaggio enorme.
Il secondo importante passo fatto è stato quello di iniziare la mia carriera presto: ho lavorato per 3-4 anni e poi, visto che ero ancora abbastanza giovane, ho deciso di fare un corso di approfondimento nel mio settore. Ho fatto quindi un dottorato di ricerca in Svizzera, cosa che oggi, a quarant’anni, non potrei mai fare perché è troppo difficile fare un dottorato e fare carriera nello stesso momento. Ci sono persone che dicono che tutto quello che si impara all’università serve poco nel mondo reale, invece ho sempre pensato il contrario, e la vita me l’ha confermato.
La formazione è alla base di tutto. Naturalmente serve anche l’esperienza, ma coloro che vanno più veloci sono quelli che hanno una buona formazione di base. Quando in azienda pianifichiamo le carriere per i giovani, parliamo sempre di due cose: learning agility e motivazione, e alla base c’è una forte curiosità perché questa è sempre segno di potenziale per il futuro, la cosa più importante.
Se c’è curiosità, se c’è learning agility, vuol dire che c’è anche una buona flessibilità intellettuale. Ma, se c’è un buon potenziale e manca una buona performance, ciò significa che mancano delle critical skills, delle critical experiences, allora dobbiamo pensare a cosa possiamo fare per aumentarle.