Report finale progetto “FARO”
Dall’indagine FARO, far luce attraverso i racconti di BPCO, sui tre punti di vista coinvolti, pazienti, familiari e medici, emerge un quadro completo e complesso della cura e della consapevolezza di questa condizione cronica.
In particolare, all’indagine hanno aderito 235 pazienti, desiderosi di lasciare la loro testimonianza, anche se breve e sofferta, 55 familiari, più difficili da intercettare, e 60 medici, per lo più pneumologi, che invece hanno subito colto l’opportunità di riflettere sulla BPCO e sulle modalità di cura.
Su un tema vi è la quasi totale convergenza: la difficoltà del nome BPCO, che porta i pazienti, e i familiari successivamente, a non capire fino in fondo della gravità della patologia, che in realtà è la quarta causa di morte per la World Health Organization, (prima del tumore al polmone). Laddove la minaccia “tumore al
polmone” mette subito in allerta i pazienti e i familiari, nel caso della BPCO, l’allarme ‘malattia’ è molto più sfumato e questo va a detrimento della concordanza terapeutica e della necessità di interrompere il fumo.
Peraltro, se nella parte razionale dei racconti non emerge il rischio di morte per soffocamento, invece nel linguaggio simbolico delle metafore, il subconscio avverte la paura di rimanere soffocati: “io chiusa in un sacchetto”, “Uno tsunami che mi investe”, “un cuscino in faccia”. Addentrandosi nella lettura delle
metafore, ci si rende conto come in realtà la paura della morte per asfissia sia un leit motiv in questi pazienti. Forse, è proprio su questo linguaggio che si può far leva anche durante le visite cliniche, suggerendo ai medici di ascoltare questo linguaggio da parte dei pazienti e di utilizzarlo anche essi per
spiegare la possibile gravità del rischio.
Fino a quando i medici, peraltro consapevoli nell’89% della difficoltà del nome della malattia e dei tecnicismi inglesi a essa assegnati (device, puff, stroller, compliance), persisteranno ad utilizzare solo questo registro linguistico, difficilmente riusciranno a far breccia nella cura dei pazienti in modo preventivo, prima cioè che la BPCO diventi troppo grave.
Infatti, la forbice dei pazienti, dalle narrazioni, emerge nelle attività proprio in base alla gravità della malattia: vi è un progressivo indebolimento e inazione nei pazienti con conseguente eccessivo carico per i loro caregivers (l’assistenza a pagamento è presente solo nel 30% dei casi), che a loro volta diventano ben consapevoli, non solo nel linguaggio simbolico ma anche in quello razionale, del fatto che molti di loro stanno passando l’ultimo tempo residuo con i loro cari. La fatica comunque emerge dalla testimonianza dei caregivers, deprivati della libertà d’azione che avevano prima della malattia del familiare, e che sperano nel futuro di potersi riprendere “respiri più ampi” per sé stessi.
Man mano che la patologia diventa più grave, i pazienti iniziano a considerare con più serietà la necessità di curarsi quotidianamente e dichiarano perciò di avere imparato a utilizzare bene i devices. D’altro canto, i medici stessi affermano che molti dei pazienti non li usano in modo efficace, ed è corretta una verifica
durante la visita, ma troppo spesso i medici, non consapevoli del timore riverenziale che ispirano soprattutto in una popolazione anziana, mettono i loro pazienti sotto un vero e proprio esame invece che osservare assieme come funziona il device.
Malgrado circa l’80% dei pazienti segua bene le cure e conosca i device, abbiamo invece ancora una percentuale dichiarata del 20% di pazienti che ammette ancora di fumare, il 60% che dichiara di aver smesso e il 20% in cui le cause della BPCO, sono da ascrivere a fattori occupazionali e a malattie respiratorie
pregresse, non avendo mai fumato. Negli ex fumatori, il 78% ritiene oggi il fumo come l’elemento più nocivo a cui è andato incontro nella loro vita, mentre ancora un 22% pericolosamente prova nostalgia della sigaretta perduta e diventa così una sottopopolazione da tenere in osservazione, in quanto basta un evento spiacevole (un lutto, la perdita del lavoro, la disoccupazione dei figli) per cadere nuovamente nella dipendenza dal fumo.
Ad eccezione di qualche “compagno/a di sigaretta”, i familiari provano prevalentemente odio per il fumo, poiché pienamente consapevoli del fatto che questo vizio possa essere la causa della malattia, rinnegando anche il fatto che il vizio del proprio compagno, dato che si tratta di una dipendenza, sia un chiaro
indicatore del loro livello di ansia, depressione, solitudine, inadeguatezza… che deve essere colmato con “un rimedio alternativo che dà altrettanta soddisfazione”.
Rispetto al fumo, anche i medici insistono che è la prima causa di malattia, – forse svalutando la possibile depressione che accompagna questi pazienti- e nel 47% essi assumono un atteggiamento sanzionatorio, a rischio però della perdita della fiducia e dell’alleanza terapeutica, e quindi alla perdita del paziente. L’altra
parte dei medici invece sceglie un atteggiamento più negoziale e di sostegno e disponibilità, forse più efficace per l’ottenimento dell’interruzione dal tabagismo da parte dei pazienti e nel mantenere il rapporto di fiducia medico-paziente instaurato.
Le narrazioni dei pazienti sono generalmente caratterizzate da un leggero atteggiamento positivo-progressivo. Sono piccoli segnali che partono dall’accettazione dei propri limiti del corpo modificato “prima riuscivo a fare le scale senza fiatone, ora fare una rampa di scale è la mia conquista”, “facevo lunghe passeggiate ora ho limitato il mio spazio di attività”, “ora che vado più lentamente riesco finalmente a godermi il paesaggio”.
Sia nelle storie dei pazienti e nelle storie dei familiari, quando il paziente giunge all’ossigeno-terapia, il mondo per loro cambia in modo drastico: i pazienti spesso si ritirano in casa, annullando quindi quell’ultimo esercizio fisico che gli sarebbe stato di giovamento, non osano più viaggiare per timore che la bombola
finisca e quindi termini la loro possibilità di respirare. In realtà le associazioni di pazienti coinvolte nel progetto si erano preoccupate di far trovare nelle stazioni, negli aeroporti, dei punti di ricarica dell’ossigeno, ma questo non è ancora abbastanza noto alla maggioranza dell’opinione pubblica.
Quanto al burden of illness, il progetto FARO ha avuto una minore adesione in termini di risposte raccolte di persone che hanno voluto parlare direttamente di denaro: sappiamo che in una piccola fetta di popolazione si può arrivare a spendere, nella somma dei costi diretti, sino a 6.700 Euro all’anno. Ma il dato più
significativo e che spiazza le convinzioni sul lavoro che la BPCO sia solo una questione che riguarda gli anziani: dei 235 pazienti, solo il 26% ha avuto la diagnosi quando era già in pensione- si può anche ipotizzare un percorso di diagnosi tardiva, ma il 24% invece ha dovuto usufruire di ferie e permessi per le
cure e la malattia, e il 21% dei pazienti ha dovuto smettere di lavorare. Infatti, la media delle giornate lavorative perse all’anno è di 25, quasi a una mensilità del lavoro.
Per i familiari il burden of illness si rivela nei tempi di assistenza al paziente: infatti il 54% deve assistere il proprio familiare oltre le 3 ore giornaliere per arrivare ad una percentuale del 16% che arriva ad occuparsi dell’assistenza al proprio familiare per oltre le otto ore giornaliere, un numero incompatibile con qualsiasi attività lavorativa, diventando il caregiving stesso un lavoro a tempo pieno.
Concludendo, il progetto FARO ha fatto luce sulla necessità fondante di stabilire una relazione profonda e di fiducia con il proprio medico e con la possibile equipe: “Il cuscino sulla faccia” è un chiaro simbolo di una malattia “sordida”, quasi delinquenziale che uccide per soffocamento. Proprio perché la malattia è nascosta, anche da un linguaggio molto distanziante, è difficile in questo caso sviluppare una empatia emozionale e cognitiva tra medico e paziente. Il familiare, dal nostro lavoro, risulta, caricato di una fatica fisica e psicologica e non è sufficientemente aiutato e supportato in questo lavoro così importante. Far luce significa dunque trovare codici di relazione più veritieri sul rischio della malattia, codici che permettano un allineamento terapeutico tra i curanti, i curati e i caregivers.
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